Perché ci schieriamo? E da che parte stiamo?
Fare giornalismo significa scegliere. Scegliere di che cosa parlare, chi far parlare e da che punto di vista parlarne. Fare giornalismo comporta sempre schierarsi, e lo fa anche chi dice il contrario.
Nell’ultima pagina delle Città Invisibili, Italo Calvino fa dire a Marco Polo una frase mitica:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Calvino pensava al ruolo di chi scrive libri, ma la sua frase funziona benissimo anche per chi fa informazione. E funziona ancora di più in un mondo come quello in cui viviamo noi ora, molto più affollato di informazioni, rispetto a quello in cui viveva lui.
Che cosa significa fare informazione?
Fare informazione, mai come oggi, è esattamente quella cosa lì: scegliere di cosa parlare, farla durare e darle spazio. E visto che scegliere — una cosa o un’altra, un punto di vista o un altro, una parola o un’altra, una verità o un’altra — è l’atto più propriamente e totalmente soggettivo che ci sia, ne consegue che anche fare informazione è un atto soggettivo.
Di più, è un atto politico.
I giornali, d’altronde, sono nati esattamente per questo: per scegliere di cosa parlare e per dare spazio a certe idee e a certe opinioni. Nella storia del Novecento sono quasi sempre state opinioni di partito, o della classe di chi ha privilegi e ha bisogno di mantenerli, o della pubblicità (che di solito sono le stesse persone).
Il giornalismo non è mai servito soltanto per elencare una serie di fatti, ma per metterli in relazione, per unire i puntini, per raccontare i contesti, per dare un punto di vista. Per fare informazione, per l’appunto.
E sempre, persino chi dice il contrario, per fare politica.
Pensare che fare informazione significhi riportare esclusivamente i fatti, nudi e crudi, è quando va bene una illusione. Anche perché per collezionare elenchi di fatti sarebbero bastati dei semplici bollettini.
La trasparenza non è cercare di convincere chi ci legge che ci sia un modo solo di vedere le cose. È esattamente il contrario: è ammettere che ce ne sono mille e non nascondere il proprio.
Un po’ come in politica la differenza tra un governo tecnico e uno politico: il governo tecnico è una truffa perché cerca di nascondere il fatto che le sue scelte sono politiche (quindi soggettive) cercando di convincere chi vota del fatto che la realtà sia oggettiva e che quindi ci sia un solo modo di affrontarla.
E quindi, da che parte stiamo noi?
Qui alla Revue cerchiamo di fare informazione e cerchiamo di farla in modo rigoroso, trasparente, empatico e giusto sia verso chi ci legge sia verso chi lavora per noi. Non pretendiamo di spiegare bene le cose, perché spiegarle bene significa pretendere che ci sia un modo solo di spiegarle. Come i governi tecnici.
Il nostro modo di essere trasparenti è ammettere di essere di parte.
E quindi, da che parte stiamo noi? Se ci hai letto almeno una volta, a questa domanda sai già rispondere. E non perché lo dichiariamo negli editoriali, ma perché emerge dall’indice dei temi che affrontiamo, dei punti di vista che ti offriamo, dai pezzi di realtà che scegliamo di raccontare, e anche da chi scegliamo per farceli raccontare.
Per tornare alla citazione dalla quale siamo partiti, noi cerchiamo di non accettare l’inferno e di non diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Noi cerchiamo di fare attenzione, di non smettere mai di imparare, «per cercare e per saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Noi cerchiamo di essere dalla parte di chi è più debole e meno rappresentato. Ma forse, ancora di più, sappiamo che non saremo mai dalla parte di chi è più forte e iper rappresentato. Per questo cerchiamo di dare spazio a chi di solito non ha spazio, come associazioni, comitati di cittadine e cittadini, realtà del terzo settore e del volontariato.
Ma quindi siamo degli attivisti?
No, scegliere da che parte stare non vuol dire essere attivisti.
Noi non siamo mai stati iscritti a partiti né ad associazioni politiche. La nostra visione del mondo è indipendente e libera da pressioni aziendali, pubblicità o indirizzi politici che non siano le nostre convinzioni e i nostri valori personali: la solidarietà tra le persone, il diritto di autodeterminazione di ogni persona, la giustizia sociale e il principio di pari dignità e uguaglianza tra tutte e tutti. Questi sono i valori che ci guidano quando scegliamo di cosa parlare.
Tra le nostre convinzioni quando si tratta di fare informazione, c’è quella della giusta distanza. Significa che cerchiamo di essere sempre alla giusta distanza dalle storie che raccontiamo. Ciò non vuol dire pretendere di essere oggettivi, ma non significa nemmeno essere coinvolti in prima persona in quello che si racconta.
Un grande giornalista come Ryszard Kapuściński diceva spesso una cosa:
La nostra professione non può essere esercitata al meglio da nessuno che sia cinico. Occorre distinguere: una cosa è essere scettici, realisti, prudenti. Questo è assolutamente necessario, altrimenti non si potrebbe fare giornalismo. Tutt’altra cosa è essere cinici, un atteggiamento incompatibile con la professione del giornalista. Il cinismo è un atteggiamento inumano, che allontana automaticamente dal nostro mestiere.
Ecco, questo cerchiamo fare: non dimenticare di essere “scettici, realisti e prudenti”. In una parola, di essere laici.
E di fare informazione con empatia.
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Ciao!






"Non pretendiamo di spiegare bene le cose, perché spiegarle bene significa pretendere che ci sia un modo solo di spiegarle. Come i governi tecnici."
Sembra un po' un attacco gratuito a Il Post.